Alla lettura della sentenza Elena Ciocca e Manuela Amadori hanno sciolto in un abbraccio la tensione accumulata negli ultimi quattro anni.
Lasciate sole dai colleghi intimoriti, dalle associazioni di categoria, dai noti marchi coinvolti, dai sindacati e dalle amministrazioni locali (risvegliati dall’indifferenza soltanto quando i riflettori della televisione si erano accesi e per costituirsi parte civile, il comune di Forlì in prima fila), da ieri sono le due artigiane del pregiato divano Made in Italy ad avere denunciato (e vinto) sul dilagante fenomeno della sostituzione delle imprese italiane con quelle più “economiche” gestite dai cinesi.
Nella storica sentenza pronunciata in tarda serata dal giudice Giorgio Di Giorgio è stata accolta la richiesta del sostituto procuratore Fabio Di Vizio di estendere anche ai committenti italiani le condanne per il reato di “rimozione e omissione dolosa delle cautele contro gli infortuni sul lavoro” (art. 437 del codice penale) messe in atto dai terzisti cinesi.
Questo perché, secondo la Procura, gli Italiani ingerivano nell’organizzazione del lavoro e della produzione dei cinesi, così come era emerso dalle indagini condotte dalla Squadra Mobile di Forlì. Gravi mancanze a danno dei dipendenti sfruttati che, unitamente all’evasione contributiva e previdenziale e all’uso di manodopera in nero, avevano dimezzato i costi e costretto numerosi artigiani romagnoli a licenziare gli operai sotto i colpi della concorrenza sleale.
Ieri sono usciti dall’aula in otto con una condanna a un anno di reclusione con la sospensione della pena: quattro Cinesi e, questa la novità, anche quattro Italiani (Ezio Petrini, Franco Tartagni, Luciano Garoia e Silvano Billi, rispettivamente titolari della “Cosmosalotto”, “Treerre” e “Polaris”).
«La sentenza ha un profilo etico-sociale», ha dichiarato il sostituto procuratore Fabio di Vizio, «Ma in questo caso è prevalso il diritto che esige la tutela effettiva delle garanzie dei lavoratori e del loro non trattabile diritto alla sicurezza».
Per i fornitori italiani era più comodo sedersi sui loro salotti pregiati senza porsi troppe domande sui prezzi stracciati proposti dai cinesi e senza assumersi l’impegno anche morale nei confronti dei loro artigiani storici che negli ultimi venti anni avevano contribuito a trasformare in eccellenza il distretto del divano forlivese.
La pronuncia, se dovesse essere confermata in tutti i gradi di giudizio, rappresenterebbe un precedente giurisprudenziale che potrebbe porre fine all’ipocrisia che oggi consente a numerosi committenti italiani di scaricare sui loro terzisti cinesi la responsabilità di una pratica dalla quale traggono profitto. Il danno all’erario per il vorticoso accumulo di contante in nero e alle imprese oneste è dilagante ma la politica non sente l’urgenza di intervenire.
In questa fase di emergenza occupazionale il ministro Fornero dovrebbe prendere in seria considerazione questa realtà che sta lasciando a casa migliaia di operai specializzati nei settori esclusivi del Made in Italy (borse, scarpe e abiti di lusso).
Le soluzioni ci sarebbero e non serve attendere l’intervento della magistratura.
Intanto, basterebbe aumentare le sanzioni, oggi ridicole, per chi viola le normative ed estenderle ai committenti italiani attraverso l’adozione di contratti di fornitura chiari e, soprattutto, disporre anche per questi prodotti la confisca e la distruzione così come avviene per il materiale contraffatto.
Quale prestigioso marchio del Made in Italy si può permettere di non allestire i propri raffinati showroom sparsi per il mondo quando è in arrivo la nuova collezione?
Lasciate sole dai colleghi intimoriti, dalle associazioni di categoria, dai noti marchi coinvolti, dai sindacati e dalle amministrazioni locali (risvegliati dall’indifferenza soltanto quando i riflettori della televisione si erano accesi e per costituirsi parte civile, il comune di Forlì in prima fila), da ieri sono le due artigiane del pregiato divano Made in Italy ad avere denunciato (e vinto) sul dilagante fenomeno della sostituzione delle imprese italiane con quelle più “economiche” gestite dai cinesi.
Nella storica sentenza pronunciata in tarda serata dal giudice Giorgio Di Giorgio è stata accolta la richiesta del sostituto procuratore Fabio Di Vizio di estendere anche ai committenti italiani le condanne per il reato di “rimozione e omissione dolosa delle cautele contro gli infortuni sul lavoro” (art. 437 del codice penale) messe in atto dai terzisti cinesi.
Questo perché, secondo la Procura, gli Italiani ingerivano nell’organizzazione del lavoro e della produzione dei cinesi, così come era emerso dalle indagini condotte dalla Squadra Mobile di Forlì. Gravi mancanze a danno dei dipendenti sfruttati che, unitamente all’evasione contributiva e previdenziale e all’uso di manodopera in nero, avevano dimezzato i costi e costretto numerosi artigiani romagnoli a licenziare gli operai sotto i colpi della concorrenza sleale.
Ieri sono usciti dall’aula in otto con una condanna a un anno di reclusione con la sospensione della pena: quattro Cinesi e, questa la novità, anche quattro Italiani (Ezio Petrini, Franco Tartagni, Luciano Garoia e Silvano Billi, rispettivamente titolari della “Cosmosalotto”, “Treerre” e “Polaris”).
«La sentenza ha un profilo etico-sociale», ha dichiarato il sostituto procuratore Fabio di Vizio, «Ma in questo caso è prevalso il diritto che esige la tutela effettiva delle garanzie dei lavoratori e del loro non trattabile diritto alla sicurezza».
Per i fornitori italiani era più comodo sedersi sui loro salotti pregiati senza porsi troppe domande sui prezzi stracciati proposti dai cinesi e senza assumersi l’impegno anche morale nei confronti dei loro artigiani storici che negli ultimi venti anni avevano contribuito a trasformare in eccellenza il distretto del divano forlivese.
La pronuncia, se dovesse essere confermata in tutti i gradi di giudizio, rappresenterebbe un precedente giurisprudenziale che potrebbe porre fine all’ipocrisia che oggi consente a numerosi committenti italiani di scaricare sui loro terzisti cinesi la responsabilità di una pratica dalla quale traggono profitto. Il danno all’erario per il vorticoso accumulo di contante in nero e alle imprese oneste è dilagante ma la politica non sente l’urgenza di intervenire.
In questa fase di emergenza occupazionale il ministro Fornero dovrebbe prendere in seria considerazione questa realtà che sta lasciando a casa migliaia di operai specializzati nei settori esclusivi del Made in Italy (borse, scarpe e abiti di lusso).
Le soluzioni ci sarebbero e non serve attendere l’intervento della magistratura.
Intanto, basterebbe aumentare le sanzioni, oggi ridicole, per chi viola le normative ed estenderle ai committenti italiani attraverso l’adozione di contratti di fornitura chiari e, soprattutto, disporre anche per questi prodotti la confisca e la distruzione così come avviene per il materiale contraffatto.
Quale prestigioso marchio del Made in Italy si può permettere di non allestire i propri raffinati showroom sparsi per il mondo quando è in arrivo la nuova collezione?