Il condannato e il suo boia abbracciati insieme, uniti da un decreto che li trascende.
A nome di chi brandisce la spada, la Giustizia, dopo che ha posato la bilancia? A chi appartiene la Legge? A Dio o agli uomini? In una condanna a morte la risposta è scontata: nessun uomo potrebbe arrogarsi il diritto di troncare la vita di un altro uomo, questa è una Legge esercitata per volontà divina una Legge che amministra gli uomini dall'alto e di fatto li prescinde. La foto di quel sedicenne iraniano consolato dal suo boia sembra rinviare neanche troppo larvatamente alla sventura che li accomuna: una Legge concepita per sudditi, non per cittadini.
A eseguirlo e a subirlo saranno due figli mai adulti che condividono la stessa impotenza. Non ci si emanciperà mai da un simile Padre, ci si spartirà con rassegnazione la sua rabbia punitiva. Eccoli infatti i suoi figli, accorsi all'impiccagione, l'evento che dovrebbe ammaestrarli attraverso il terrore. Guardano, fotografano. Tre donne in prima fila assistono allo strazio piangendo, coprendosi il volto, mentre il resto del pubblico tiene gli occhi puntati sulla fine del condannato nascondendo a fatica, nel desiderio di giustizia, il sollievo per lo scampato pericolo. Il capro espiatorio infonde una magra certezza - anche stavolta non è toccato a me - è così che rinforza la coesione del gregge. Ma è davvero giusto il suo sacrificio?
Mi vengono sempre in mente le prime pagine di «Sorvegliare e Punire», il saggio di Michel Foucault in cui la morte di un condannato allo «smembramento» (siamo nella Francia di Luigi XVI) arriva dopo una giornata di tentativi e un continuo andirivieni del boia tra Versailles e il luogo del supplizio per trovare alternative che possano, nel rispetto del decreto della corte, ovviare agli infiniti imprevisti. Posso attaccargli altri due cavalli alle braccia? Posso tagliarlo a pezzi? La ligia, scrupolosa applicazione della Legge in lotta contro il caos e la ribellione delle carni umane. Anche in quel caso gli aiutanti del boia si chinavano tra le corde a baciare il resistentissimo moribondo e lui, sperando in un colpo di grazia fuori protocollo, li ricambiava sussurrando: fate pure il vostro mestiere, io non ve ne voglio.
A eseguirlo e a subirlo saranno due figli mai adulti che condividono la stessa impotenza. Non ci si emanciperà mai da un simile Padre, ci si spartirà con rassegnazione la sua rabbia punitiva. Eccoli infatti i suoi figli, accorsi all'impiccagione, l'evento che dovrebbe ammaestrarli attraverso il terrore. Guardano, fotografano. Tre donne in prima fila assistono allo strazio piangendo, coprendosi il volto, mentre il resto del pubblico tiene gli occhi puntati sulla fine del condannato nascondendo a fatica, nel desiderio di giustizia, il sollievo per lo scampato pericolo. Il capro espiatorio infonde una magra certezza - anche stavolta non è toccato a me - è così che rinforza la coesione del gregge. Ma è davvero giusto il suo sacrificio?
Mi vengono sempre in mente le prime pagine di «Sorvegliare e Punire», il saggio di Michel Foucault in cui la morte di un condannato allo «smembramento» (siamo nella Francia di Luigi XVI) arriva dopo una giornata di tentativi e un continuo andirivieni del boia tra Versailles e il luogo del supplizio per trovare alternative che possano, nel rispetto del decreto della corte, ovviare agli infiniti imprevisti. Posso attaccargli altri due cavalli alle braccia? Posso tagliarlo a pezzi? La ligia, scrupolosa applicazione della Legge in lotta contro il caos e la ribellione delle carni umane. Anche in quel caso gli aiutanti del boia si chinavano tra le corde a baciare il resistentissimo moribondo e lui, sperando in un colpo di grazia fuori protocollo, li ricambiava sussurrando: fate pure il vostro mestiere, io non ve ne voglio.