Sistemi operativi veri (sia per cellulari che per computer), terminologia giusta, ipotesi di fantasia coi piedi per terra e riferimenti corretti, Blackhat è il film più rigoroso che abbiate visto sull’hacking dai tempi di War Games.
A Michael Mann piace la gente che fa bene il proprio lavoro e i criminali non fanno eccezione, già nel 1981 in Strade violente c’era una delle più estenuanti e meticolose ricostruzioni di uno scassinamento professionistico. Tutto nei suoi film segue maniacali ricostruzioni realistiche e quindi ora che ha deciso di girare un thriller in cui la parte criminale si svolge online non è stato da meno. Il cinema, specie americano, ci ha abituato a un’informatica inventata, alla tecnologia equiparata alla magia (in tutte le ere della rivoluzione digitale da Hackers a Codice: Swordfish fino a Transcendence), i computer che possono tutto, gli hacker confusi con i cracker, i geni che penetrano qualsiasi oggetto tecnologico, anche quelli che non avrebbero motivo d’essere connessi a una rete.
Ora Blackhat fa giustizia e mostra un po’ di hacking vero, ma in un thriller d’azione. Questo significa che non dovete aspettarvi un documentario, ma un film in cui un criminale informatico fa le flessioni in cella e ha il fisico di Thor, invece che quello di Kim Dotcom. Benché infatti molto di ciò che si dice e mostra sia ben documentato, stiamo parlando di film in cui la gente spara nelle strade ad altezza uomo senza problemi, o in cui combattimenti mortali hanno luogo in piazza durante una grande manifestazione di massa, non va dimenticato che qualsiasi buon film scambia sempre volentieri un po’ di plausibilità con un po’ di spettacolo. Ed è giusto che sia così.
Mann usa i veri suoni delle armi, veri mezzi, vere strategie criminali, vere operazioni di polizia per le proprie trame, ma poi non esita a esagerare per rendere tutto più appassionante e così accade anche con l’informatica: tutto è vero fino al punto in cui non rovina l’intrattenimento, da lì in poi si inventa un po’, si arricchisce e si colora la realtà. Come l’intelligenza artificiale di War Games. Blackhat inizia in maniera fulminante, con una panoramica incredibile del computer da dentro, all’interno del piccolo, poi del piccolissimo e infine nel minuscolo, nelle nanodimensioni, per cercare di guardare tutti gli eventi che si svolgono nel silicio alla pressione di un tasto, una ricostruzione impressionante (specie perché quando l’inquadratura si allontana sembra di stare sopra una città). Già da questo bisognerebbe capire quanto Blackhat non intenda l’informatica come una pistola, cioè uno strumento criminale che fa un danno alla pressione di un grilletto, ma come un universo a sé, dotato di regole sue, all’interno delle quali muoversi. (Wired)
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