Arriva al cinema Forza Maggiore, di Ruben Östlund. Isolati nella dimensione spaziale della settimana bianca di un residence in alta montagna (Les Arcs 2000), la coppia svedese Tomas ed Ebba, genitori dei piccoli Vera ed Harry, prende una pausa dalla quotidianità sciando.
Il possibile idillio è subito interrotto dall’inattesa slavina che travolge con qualche spruzzo di neve il terrazzo panoramico del rifugio chic dove stavano pranzando. Solo che Tomas sempre pronto a dispensare sicurezza ai familiari, appena si accorge del pericolo fugge a gambe levate raccogliendo guanti e smartphone, mentre Ebba si getta a proteggere i figli. Nessuno si farà male, ma la crepa familiare nata dal gesto compiuto dal marito si aprirà sfaldando gradualmente il rapporto.
Questione di una frazione di secondo, l’attimo della valanga incombente, e Forza Maggiore compie il suo miracolo di racconto dell’assurdo che si fa terribilmente veritiero. L’improvvisa sfiducia di coppia si riverbera nelle azioni dei protagonisti, devia come conflitto di genere e di nuovo come dubbio morale nella coppia di amici che raccoglie lo sfogo di lei, e si fa ancora virata antropologica sulle origini ancestrali del maschio.
Incastonato il set in un catino bianco accecante, che nei momenti tragici è un fasullo “chroma key”, Ostlund osserva in perenne ed entomologica oggettiva, scavalcamento di campo come marchio dell’inquadratura, la devastante crisi fiduciaria tra marito e moglie. Inquietante uso del bianco/neve come qualsiasi maestro del thriller userebbe il nero, e attenta ricostruzione sonora di rumori d’ambiente e ottoni dirompenti per sottolineare la continua attesa di un pericolo percepito che non deflagra mai definitivamente. (Il Fatto Quotidiano)
Incastonato il set in un catino bianco accecante, che nei momenti tragici è un fasullo “chroma key”, Ostlund osserva in perenne ed entomologica oggettiva, scavalcamento di campo come marchio dell’inquadratura, la devastante crisi fiduciaria tra marito e moglie. Inquietante uso del bianco/neve come qualsiasi maestro del thriller userebbe il nero, e attenta ricostruzione sonora di rumori d’ambiente e ottoni dirompenti per sottolineare la continua attesa di un pericolo percepito che non deflagra mai definitivamente. (Il Fatto Quotidiano)
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