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Regeni, l’orrore della stanza 13. “Ucciso da quattro 007 egiziani”

Giulio torturato per nove giorni con oggetti roventi, lame e bastoni. La sua agonia ricostruita dalla procura di Roma. Cinque testimoni chiave per chiudere le indagini. Le accuse a magistrati e istituzioni del Cairo: hanno depistato per anni

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Il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni sono stati un delitto di Stato. Il ricercatore italiano è stato ucciso da uomini degli apparati del governo egiziano, la National security, il servizio segreto civile, dopo nove giorni di «orrende torture e sevizie con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni» in una stanza dell’orrore. La numero “13”, al primo piano di un villino degli anni ’50 nel centro del Cairo, a pochi passi dal ministero degli Interni. Dove, qualche giorno dopo l’omicidio, il ministro dell’Interno del governo di Al Sisi, Magdi Abdel Ghaffar, giurava davanti alla stampa internazionale: «È inaccettabile che si insinui il sospetto del coinvolgimento delle forze di sicurezza».

Gli uomini che portano la responsabilità del sequestro, delle torture e dell’omicidio di Giulio sono quattro ufficiali della National security agency: Sabir Tariq, classe 1963, generale presso il Dipartimento della sicurezza nazionale; Ibrhaim Kamel Athar, classe 1968, colonnello, direttore di ispezione presso la Direzione della sicurezza di Wadi-Al-Jadid; Helmy Uhsam, classe 1968, colonnello, già in forza alla Direzione della sicurezza nazionale; Sharif Abdelal Maghdi, classe 1984, maggiore del servizio presso la sicurezza nazionale. La procura di Roma ne chiede il giudizio con un atto di accusa di 94 pagine firmato dal procuratore capo Michele Prestipino e dal sostituto Sergio Colaiocco. È un documento che chiude cinque anni di indagini e solleva il velo non solo sulle responsabilità materiali dell’omicidio Regeni ma anche su quelle politiche della magistratura e delle istituzioni egiziane che, in questi cinque anni, hanno consapevolmente e ostinatamente ostruito la ricerca della verità. Un atto di accusa che non ha precedenti nella storia giudiziaria del nostro Paese, che mette in mora la Repubblica araba d’Egitto e di cui questo è il racconto.

Le prove


La procura è certa che la mano sull’omicidio di Giulio Regeni è quella della National security. E lo è sulla base di almeno quattro elementi. L’autopsia ha documentato le torture cui Giulio è stato sottoposto. «Sono le stesse — disse il procuratore Giuseppe Pignatone ai colleghi egiziani — di quelle descritte nella letteratura medico-legale egiziana, tipiche del modus operandi locale di torturare gli arrestati».

La National security «indagava su Regeni — scrive la Procura — e lo faceva, e veniamo al movente, perché riteneva che fosse «una spia della Cia o della fondazione inglese Antipode». E invece, come hanno documentato senza possibilità di smentita le indagini, era un ricercatore che faceva onestamente il suo lavoro. Infine, l’Egitto ha depistato scientificamente le indagini sin dal principio. Manipolando le immagini delle telecamere della fermata della metro dove Giulio è stato sequestrato. Ammazzando cinque innocenti. «L’Egitto — scrivono i pm — non ha compiuto alcun atto autonomo di indagine dopo il 2016, chiudendo di fatto le indagini in quella data», o, in alternativa «ha compiuto attività di indagine mai condivise».

I testimoni


A dare, però, la svolta cruciale alle indagini sono state cinque testimonianze, raccolte grazie al contributo decisivo dell’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini. I testimoni sono ora tutti in località protette, fuori dall’Egitto. Per tutelarli, la procura ha secretato le loro identità chiamandoli Alfa, Beta, Gamma, Delta ed Epsilon. Questo è quello che hanno raccontato.

Alfa e Beta raccontano di aver raccolto lo sfogo del coinquilino di Giulio, l’avvocato El Sayad, che aveva fatto da informatore per la National security, cui permise la perquisizione dell’appartamento quando Giulio non c’era. «Mi disse che era stato contattato dal portiere del suo palazzo presso il quale si era presentato un ufficiale della National security, prima del Natale 2015, circa a metà dicembre. El Sayad mi raccontò di essersi scambiato anche il numero di telefono con l’ufficiale e di averlo sentito poi telefonicamente più volte prima di Natale. Aggiunse che l’ufficiale era tornato nel palazzo almeno un’altra volta o due».

A guidare l’indagine della National security è il maggiore Sharif, di cui parla il testimone Gamma. Sharif, nell’agosto del 2017, è a Nairobi, Kenya, per un incontro tra funzionari dei servizi segreti africani. Racconta Gamma: «L’arabo ha cominciato a parlare di uno studente italiano, che apparteneva alla fondazione Antipode, che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto (...). Avevano sentito dalle intercettazioni che doveva andare a una festa in zona Tahrir e poco prima che raggiungesse un ristorante lo avevano fermato. (...). Affermava di aver colpito l’italiano». L’egiziano era Sharif.

Sono però i testimoni Delta ed Epsilon a inchiodare la National security. Ascoltato l’8 novembre del 2019 dalla procura di Roma, racconta Delta a verbale: «La sera del 25 gennaio del 2016, mi trovavo nella stazione di polizia di Dokki. Potevano essere le 20 o, al massimo, le 21. È arrivata una persona (…) Avrà avuto tra i 27, 28 anni (…). Aveva una barba corta (…). Indossava un pullover, verosimilmente tra il blu e il grigio. Se non ricordo male, con una camicia sotto (…) Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato (…). Sono sicuro si trattasse di Giulio Regeni. L’ho visto arrivare nella stazione di polizia e, mentre percorreva il corridoio, l’ho sentito chiedere di poter parlare con un avvocato o con il suo consolato (…). Accanto a lui aveva quattro persone in abiti civili. E ho visto una di queste 4 persone con un telefono in mano». Delta non conosce quei quattro uomini. Ma di due di loro ascolta distintamente i nomi: Mohamed e Sharif. «Mentre Regeni — aggiunge — continuava a chiedere un avvocato, un altro degli arrestati di quella sera, che era nella stazione di polizia, provò ad aiutarlo. E per questo ricevette una gomitata al volto da uno dei poliziotti, che gli disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo». Giulio non resta comunque a lungo nella caserma di Dokki. «Venne bendato — prosegue Delta — e fatto salire su un’auto modello “Shain”, che corrisponde a una Fiat 123 italiana, per essere condotto in un posto che si chiama Lazoughly.

È lo stesso nome che il 29 luglio scorso pronuncia davanti al pm Sergio Colaiocco l’ultimo testimone, Epsilon. «È una struttura — dice Epsilon — in villa che risale ai tempi di Abd Al Naser e si trova all’interno della sede del ministero dell’Interno. Prende il nome dalla via su cui si affaccia. Il villino ha quattro piani e quello d’interesse è il primo, perché lì si trova la stanza numero 13». La “stanza numero 13” è un “ufficio investigativo”, se così si può definire una camera delle torture. «Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale, viene portato lì», dice Epsilon. E Giulio non fa eccezione. Epsilon se lo ritrova infatti di fronte «il 28 o il 29 gennaio». Sono passati tre giorni dal sequestro e il trattamento del prigioniero va già avanti da un pezzo. «Regeni era nell’ufficio 13 e con lui erano anche due ufficiali, che conoscevo, e altri agenti. Entrando nell’ufficio, ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone (…). Lui era mezzo nudo nella parte superiore e portava dei segni di tortura. Blaterava parole nella sua lingua. Delirava (…). Era un ragazzo magro, molto magro. Ed era sdraiato steso per terra con il viso riverso. Era ammanettato con manette che lo costringevano a terra (…). Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque, sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e capito che era lui»

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