Addio al pezzo di carta. Fine del valore legale della laurea
Il 110 e lode non sarà più un parametro decisivo per il nostro curriculum, anzi forse scomparirà proprio. Cosa c’entra con le liberalizzazioni? C’entra, perché dotare le imprese e il mondo del lavoro in generale di strumenti migliori per valutare un candidato all’assunzione favorisce la produttività e la crescita valorizzando il merito piuttosto che il titolo. Il Governo sta studiando il dossier sulle lauree, con due ipotesi forti di riforma. La prima, seccamente, propone l’abolizione del valore legale del titolo di studio, un’idea non nuova che già Luigi Einaudi espresse nel libro “Sul monopolio culturale della scuola di stato”. Il liberale Einaudi giudicava l’attribuzione del valore legale al titolo di studio una maniera per uniformare, di fatto, gli insegnamenti in tutte le scuole ai programmi decisi dallo Stato, pregiudicando alla radice ogni enunciazione di libertà di insegnamento.
Il Governo rispolvera l’abolizione per il semplice motivo che una laurea presa a Roma è diversa da una presa a Milano o in un’altra città: non avrà più, quindi lo stesso peso, misurato dalla legge, ma il suo valore dipenderà unicamente dalla reputazione degli atenei. Insomma un 110 e lode preso in una università più facile, meno buona, non può valere un 100 che è costato più fatica presso un ateneo più difficile e migliore sotto ogni punto di vista.
La seconda ipotesi è un po’ meno drastica ma ugualmente rivoluzionaria. Il piano prevede l’eliminazione del voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il criterio ispiratore è lo stesso: non favorire chi si laurea in una pessima università a svantaggio di chi ha faticato in un centro di eccellenza. La riforma contiene diverse criticità, ovviamente, di merito e di metodo. Per esempio, innanzitutto su certe professioni liberali, come medici e architetti il valore legale è previsto dalle norme europee. Se pensiamo, poi, all’arbitrarietà di certe nomine e cooptazioni della politica, si capisce che mancando anche il riferimento alla laurea si agevolerebbero i comportamenti che si vuole eliminare.
Da un punto di vista puramente di principio l’idea è ragionevole e sensata ma, la sua applicazione, potrebbe realizzare nuove diseguaglianze, con un “federalismo” universitario dove le maggiori risorse fossero destinate ai migliori atenei. Consentendo un meccanismo sperequativo tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. “Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio, ma con questa crisi ce lo possiamo permettere?” si domanda scettico il rettore della Normale di Pisa Salvatore Settis.
Il Governo rispolvera l’abolizione per il semplice motivo che una laurea presa a Roma è diversa da una presa a Milano o in un’altra città: non avrà più, quindi lo stesso peso, misurato dalla legge, ma il suo valore dipenderà unicamente dalla reputazione degli atenei. Insomma un 110 e lode preso in una università più facile, meno buona, non può valere un 100 che è costato più fatica presso un ateneo più difficile e migliore sotto ogni punto di vista.
La seconda ipotesi è un po’ meno drastica ma ugualmente rivoluzionaria. Il piano prevede l’eliminazione del voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il criterio ispiratore è lo stesso: non favorire chi si laurea in una pessima università a svantaggio di chi ha faticato in un centro di eccellenza. La riforma contiene diverse criticità, ovviamente, di merito e di metodo. Per esempio, innanzitutto su certe professioni liberali, come medici e architetti il valore legale è previsto dalle norme europee. Se pensiamo, poi, all’arbitrarietà di certe nomine e cooptazioni della politica, si capisce che mancando anche il riferimento alla laurea si agevolerebbero i comportamenti che si vuole eliminare.
Da un punto di vista puramente di principio l’idea è ragionevole e sensata ma, la sua applicazione, potrebbe realizzare nuove diseguaglianze, con un “federalismo” universitario dove le maggiori risorse fossero destinate ai migliori atenei. Consentendo un meccanismo sperequativo tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. “Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio, ma con questa crisi ce lo possiamo permettere?” si domanda scettico il rettore della Normale di Pisa Salvatore Settis.