Combattono in Siria e in Iraq, soltanto il 20 per cento è figlio di immigrati. Le adesioni soprattutto a Brescia, Torino, Padova e Bologna
Sono almeno cinquanta. Giovanissimi. Reclutati e indottrinati spesso via Internet. Vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad: la guerra santa. Ecco l’identikit delle decine di «foreign fighters», i combattenti italiani arruolati dal terrorismo nelle schiere dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) dei quali ha parlato ieri al Corriere il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Nei rapporti riservati della nostra intelligence, che li ha posti sotto controllo, i «foreign fighters» sono la punta estrema di fanatismo in un fenomeno che non è coeso in un unico nucleo, ma frammentato. E che può contare su un gruppo più consistente di residenti in Italia che fungono da «ufficiali di collegamento» tra il nostro territorio e il terrorismo islamico. Secondo le relazioni della nostra intelligence, sarebbero almeno duecento questi ultimi soggetti «attenzionati», ritenuti molto pericolosi dai nostri servizi perché rientrati nel nostro Paese dopo un periodo di addestramento in basi segrete, per lo più in Afghanistan. Rappresentano un fenomeno del tutto nuovo e in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei come Gran Bretagna, Germania e Francia e Belgio. Lì la gran parte dei jihadisti reclutati, molto più numerosi di quelli italiani, vanno direttamente a combattere come volontari nei teatri di conflitto. Da noi è il contrario. La maggioranza resta a fornire sostegno logistico, organizzativo e di reclutamento sul nostro territorio, ritenuto uno snodo nevralgico. Anche perché le politiche di integrazione e di accoglienza stanno rendendo sempre più difficile riconoscere, all’interno del popolo di disperati in arrivo sulle nostre coste, quei soggetti che tornano dalla Siria o dalla Libia con ruoli di primo piano. E capaci di fare da punto di riferimento per le nuove reclute.
I «foreign fighters», dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani. Hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere. Sono stati convertiti alla fede jihadista spesso attraverso il web. Tecniche psicologiche manipolative potenti, sperimentate in Pakistan, nei campi di addestramento per giovani kamikaze.
L’allarme infiltrazioni è stato più volte lanciato in questi mesi di grandi sbarchi. E se il ministro dell’Interno, come aveva già fatto il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti, ha minimizzato sull’incidenza tra i migranti di potenziali terroristi islamici, c’è comunque grande preoccupazione. Molti di quei circa duecento «ufficiali di collegamento» presenti sul nostro territorio nazionale sono rientrati in Italia da Paesi in guerra, inclusa la Siria: come distinguerli con certezza dai richiedenti asilo? Sono loro, del resto, a destare maggiori timori. A capo di piccoli gruppi di intervento, dediti per lo più alla raccolta di fondi e al reclutamento, secondo gli esperti sarebbero pronti, nel momento in cui arrivasse l’ordine, a trasformarsi in micro-cellule terroristiche. O a fornire supporto logistico per l’organizzazione internazionale di eventuali attentati.
Sono almeno cinquanta. Giovanissimi. Reclutati e indottrinati spesso via Internet. Vengono dalle città del Nord: soprattutto Brescia, Torino, Ravenna, Padova, Bologna, e diversi piccoli centri del Veneto. Ma anche Roma e Napoli. La gran parte, almeno l’80 per cento di loro, sono italiani convertiti all’Islam da poco. E di colpo. Ma ci sono anche figli di immigrati, di seconda generazione. Tutti sono attualmente tra Siria e Iraq, pronti ad immolarsi per la jihad: la guerra santa. Ecco l’identikit delle decine di «foreign fighters», i combattenti italiani arruolati dal terrorismo nelle schiere dell’Isis (Stato islamico dell’Iraq e del Levante) dei quali ha parlato ieri al Corriere il ministro dell’Interno, Angelino Alfano.
Nei rapporti riservati della nostra intelligence, che li ha posti sotto controllo, i «foreign fighters» sono la punta estrema di fanatismo in un fenomeno che non è coeso in un unico nucleo, ma frammentato. E che può contare su un gruppo più consistente di residenti in Italia che fungono da «ufficiali di collegamento» tra il nostro territorio e il terrorismo islamico. Secondo le relazioni della nostra intelligence, sarebbero almeno duecento questi ultimi soggetti «attenzionati», ritenuti molto pericolosi dai nostri servizi perché rientrati nel nostro Paese dopo un periodo di addestramento in basi segrete, per lo più in Afghanistan. Rappresentano un fenomeno del tutto nuovo e in controtendenza rispetto agli altri Paesi europei come Gran Bretagna, Germania e Francia e Belgio. Lì la gran parte dei jihadisti reclutati, molto più numerosi di quelli italiani, vanno direttamente a combattere come volontari nei teatri di conflitto. Da noi è il contrario. La maggioranza resta a fornire sostegno logistico, organizzativo e di reclutamento sul nostro territorio, ritenuto uno snodo nevralgico. Anche perché le politiche di integrazione e di accoglienza stanno rendendo sempre più difficile riconoscere, all’interno del popolo di disperati in arrivo sulle nostre coste, quei soggetti che tornano dalla Siria o dalla Libia con ruoli di primo piano. E capaci di fare da punto di riferimento per le nuove reclute.
I «foreign fighters», dalle indagini finora svolte, sono tutti molto giovani. Hanno tra i 18 e i 25 anni. E sono per lo più maschi. Non si hanno per il momento notizie di donne partite dall’Italia per combattere. Sono stati convertiti alla fede jihadista spesso attraverso il web. Tecniche psicologiche manipolative potenti, sperimentate in Pakistan, nei campi di addestramento per giovani kamikaze.
L’allarme infiltrazioni è stato più volte lanciato in questi mesi di grandi sbarchi. E se il ministro dell’Interno, come aveva già fatto il sottosegretario con delega ai servizi Marco Minniti, ha minimizzato sull’incidenza tra i migranti di potenziali terroristi islamici, c’è comunque grande preoccupazione. Molti di quei circa duecento «ufficiali di collegamento» presenti sul nostro territorio nazionale sono rientrati in Italia da Paesi in guerra, inclusa la Siria: come distinguerli con certezza dai richiedenti asilo? Sono loro, del resto, a destare maggiori timori. A capo di piccoli gruppi di intervento, dediti per lo più alla raccolta di fondi e al reclutamento, secondo gli esperti sarebbero pronti, nel momento in cui arrivasse l’ordine, a trasformarsi in micro-cellule terroristiche. O a fornire supporto logistico per l’organizzazione internazionale di eventuali attentati.