Tra le molte indiscrezioni che riguardano questo viaggio, penoso e lento, di Michael Schumacher, c’è una notizia preziosa. Piange, Schumi. Talvolta e misteriosamente. Piange quando sente i suoi figli, la voce della moglie, i suoi cani. Nel silenzio di quella stanza, attrezzatissima e remota, una lacrima scende lungo il suo volto magro, in corrispondenza di una nota, di un suono.
Dentro questa immagine possiamo trovare, con un piccolo sollievo, una doppia commozione. C’è la vita, tutta e piena, racchiusa in una goccia; c’è la forza di un uomo che si commuove e che commuove ciascuno di noi. E c’è, soprattutto, una tenerissima corrispondenza con chi lo accudisce, lo scruta, lo osserva da un anno, senza tregua né pace. Al di là di ogni diagnosi, per forza incerta, abbiamo la consapevolezza di avere ancora a che fare con un uomo che resiste e combatte. Abbastanza per coltivare una speranza necessaria non soltanto a Schumi e alla sua famiglia. Nessuno, del resto, si è mai rassegnato. Come di fronte a una cattiveria del destino esorbitante e prodotta fuori tempo, abbiamo accompagnato la corsa più dura di Michael con una foga estrema, dentro la quale si sono accumulati allarmi autentici, clamori fuori luogo, invenzioni e illazioni continue.
«Come sta Schumi?». La domanda è un tormentone, viene ripetuta ovunque, via mail, a voce, dentro uffici, case e bar. Contiene un’ansia collettiva ed è il desiderio di vincere questa maledetta corsa che scatena una sete solo in apparenza morbosa. Piuttosto, il motore della curiosità si trova in una passione comune, nel bisogno di sconfiggere una ingiustizia di troppo. Nessuno in realtà può dirci come sta davvero Michael, non esistono dati certi per una prognosi. In compenso, abbiamo un uomo che siamo abituati a considerare imbattibile, assistito da una squadra efficiente come un grande team, da macchine più affidabili di qualunque Mercedes, impegnato in una lotta che ciascuno di noi comprende nel profondo. Un vecchio prete, molti anni fa, chiedeva ai propri alunni di privarsi, per alcuni minuti, di un senso, a rotazione. La vista o l’udito; il tatto, il gusto, l’olfatto, annullati brevemente e a rotazione. L’esperimento è utilissimo sempre, offre la misura - nella privazione - di una ricchezza riscoperta all’improvviso. Eccoli qui i veri regali. Adesso, allo scadere di un anno in cui Schumi è sembrato davvero lontano, abbiamo un segno da accostare ai suoi salti sul podio, ad un traguardo tagliato. Abbiamo le sue lacrime, i suoi sensi esposti. È poco. È tutto. Per continuare ad aspettarlo, con fiducia, dopo averlo tanto rincorso, senza fiato. (Corriere della Sera)
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«Come sta Schumi?». La domanda è un tormentone, viene ripetuta ovunque, via mail, a voce, dentro uffici, case e bar. Contiene un’ansia collettiva ed è il desiderio di vincere questa maledetta corsa che scatena una sete solo in apparenza morbosa. Piuttosto, il motore della curiosità si trova in una passione comune, nel bisogno di sconfiggere una ingiustizia di troppo. Nessuno in realtà può dirci come sta davvero Michael, non esistono dati certi per una prognosi. In compenso, abbiamo un uomo che siamo abituati a considerare imbattibile, assistito da una squadra efficiente come un grande team, da macchine più affidabili di qualunque Mercedes, impegnato in una lotta che ciascuno di noi comprende nel profondo. Un vecchio prete, molti anni fa, chiedeva ai propri alunni di privarsi, per alcuni minuti, di un senso, a rotazione. La vista o l’udito; il tatto, il gusto, l’olfatto, annullati brevemente e a rotazione. L’esperimento è utilissimo sempre, offre la misura - nella privazione - di una ricchezza riscoperta all’improvviso. Eccoli qui i veri regali. Adesso, allo scadere di un anno in cui Schumi è sembrato davvero lontano, abbiamo un segno da accostare ai suoi salti sul podio, ad un traguardo tagliato. Abbiamo le sue lacrime, i suoi sensi esposti. È poco. È tutto. Per continuare ad aspettarlo, con fiducia, dopo averlo tanto rincorso, senza fiato. (Corriere della Sera)
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