Sulla ruota di Berlino esce il numero 5 ed è un numero che fa male alla Juventus. Cinque come le Coppe che il Barcellona alza nel cielo sopra l'Olympiastadion, lasciando in bocca ai bianconeri il gusto amaro di una sconfitta meritata per quanto mostrato in campo, ma anche piena d'orgoglio e di rimpianto.
Vince il Barcellona perché per almeno 60 minuti dipinge calcio, a tratti quasi scherza con la Juve, controlla e dispone a volontà del centrocampo. Se non fosse per le manone salde di Buffon, i catalani la chiuderebbero anche dopo aver trovato il vantaggio immediato di Rakitic. Invece Gigi si ricorda cosa significa essere il numero uno e almeno due volte tiene a galla i suoi: miracolo su Dani Alves quando sul cronometro ci sono appena 13 minuti e bis su Suarez all'alba della ripresa. Lo svantaggio con cui i bianconeri tornano negli spogliatoi, insomma, è il danno minimo possibile, anche se gli indicatori sono tutti negativi: possesso palla dominante del Barcellona (66%), errori in serie nella fase di costruzione, zero apporto da Pirlo che viene guardato a vista tutte le volte che la Juventus prova a ripartire. Soprattutto un solo misero tiro verso Ter Stegen (minuto 44) a conferma di una generale impotenza bianconera. Il calcio, però, è materia liquida e così alla ripresa delle ostilità arriva anche il momento della Juventus.
Vince il Barcellona perché per almeno 60 minuti dipinge calcio, a tratti quasi scherza con la Juve, controlla e dispone a volontà del centrocampo. Se non fosse per le manone salde di Buffon, i catalani la chiuderebbero anche dopo aver trovato il vantaggio immediato di Rakitic. Invece Gigi si ricorda cosa significa essere il numero uno e almeno due volte tiene a galla i suoi: miracolo su Dani Alves quando sul cronometro ci sono appena 13 minuti e bis su Suarez all'alba della ripresa. Lo svantaggio con cui i bianconeri tornano negli spogliatoi, insomma, è il danno minimo possibile, anche se gli indicatori sono tutti negativi: possesso palla dominante del Barcellona (66%), errori in serie nella fase di costruzione, zero apporto da Pirlo che viene guardato a vista tutte le volte che la Juventus prova a ripartire. Soprattutto un solo misero tiro verso Ter Stegen (minuto 44) a conferma di una generale impotenza bianconera. Il calcio, però, è materia liquida e così alla ripresa delle ostilità arriva anche il momento della Juventus.
Succede su una delle poche verticalizzazione riuscite, con Morata a castigare Ter Stegen e a dare inizio all'altra partita, quella in cui Luis Enrique deve alzarsi dalla panchina per cercare di scuotere con forza i suoi, smarriti e tremebondi tutte le volte che il pallone finisce nella metà campo catalana. Dura un quarto d'ora esatto. Poi Messi accende la luce, Buffon fa quello che può e Suarez sentenzia. Game over. Non perché la Juve non ci provi fino alla fine, ma per la sensazione immediata che l'attimo fuggente sia svanito, bruciato troppo in fretta, soffocato quasi sul nascere. Il gol annullato a Neymar (scorretto nelle proteste), i tentativi di Allegri con Pereyra, Coman e Llorente dentro al posto di Vidal, Evra e Morata, insieme all'antico vizio del Barcellona di non uccidere avversario e partita, spostano la sentenza fino al goal conclusivo di Neymar per il 3-1 che precede di un soffio il triplice fischio del turco Cakir. Finisce con la festa catalana sul prato dell'Olympiastadion e con le lacrime bianconere. Ancora una volta, per la sesta in otto finali. Una maledizione, ma questa Juve è tosta, lascia Berlino a testa alta, sta programmando il futuro e un giorno tornerà a giocarsi la vittoria in Champions. (Panorama)
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