Poteva sembrare paradossale che uno dei registi più ipercinetici, sovraeccitati e visivamente flamboyant del panorama internazionale, quale è indubbiamente Danny Boyle, si andasse a cimentare nella storia apparentemente staticissima: quella (vera) di un ragazzo amante degli sport estremi rimasto per 127 ore, più di cinque giorni, intrappolato sul fondo di un canyon con un braccio bloccato da un masso impossibile da spostare, e che è riuscito a sopravvivere solo amputandosi la parte del corpo rimasta intrappolata.
Eppure, è proprio nello spazio di frattura, nel crepaccio, che esiste tra il dinamismo di uno stile che l’inglese conferma senza falsi pudori e l’immobilismo cui è costretto il personaggio interpretato dal bravo James Franco che un film come 127 ore (cerca di) trova(re) il suo senso.
Dopo un incipit che serve ad inquadrare la personalità del suo protagonista e a collocarlo sul luogo dell’incidente, infatti, Boyle si concentra unicamente sulla fase della prigionia, lasciando che il suo Aron riviva parti fondamentali della sua vita e di sé stesso attraverso flashback via via più nervosi e allucinati che lo porteranno verso una sorta di rinascita spirituale il cui prezzo è appunto, anche metaforicamente, una parte in carne ed ossa del suo essere fisico.
Sembra quasi che il regista cerchi di applicare la filosofia dello sport estremo al (suo) cinema, di testare i limiti del suo mezzo espressivo e delle sue capacità lavorando per esasperazioni e di trovare in essi il senso per andare avanti e ricostruirsi, per rinnovarsi. E allora ecco che 127 ore è, paradossalmente, un film più di sceneggiatura che di regia: perché è proprio nell’invenzione prima di tutto narrativa (e solo successivamente visiva) dei modi, dei tipi e dei tempi delle allucinazioni del protagonista che si esprime e sviluppano la dinamica del racconto e le sue tematiche. Che poi alcune intuizioni di sceneggiatura siano ottime – si veda il talk show immaginario di cui Aron è al tempo stesso protagonista e conduttore – altre più facilone, è un altro discorso.
Fin dai frenetici montaggi iniziali è poi chiaro che Boyle è interessato alla storia non solo per il racconto della parabola di Ralston, ma anche per tratteggiare un problema sociale e sociologico non indifferente, specie per quanto riguarda la cultura statunitense: l’equilibrio difficile e sofferto tra spinta alla massificazione e pulsioni individualistiche, sia a livello collettivo che individuale. Aron è infatti descritto come un giovane vittima della sua stessa, inconscia ossessione per un’indipendenza di agire e di pensiero che troppo spesso si è trasformata in egoismo, in un culto dell’autosufficienza e dell’immagine di sé che può costargli la vita.
La riflessione (sul cinema e sull’uomo) di Boyle rischia di perdere di efficacia con l’accumulo di momenti furbi e ruffiani di un regista a volte volgarotto; e soprattutto in un finale eccessivo, nel quale la retorica della “storia vera” e il culto del sopravvissuto prendono il sopravvento, si eccede nella volontà di racconto e si abusa dei già abusati Sigur Ros. Anche se va ammesso che, rispetto al celebrato The Millionaire, questo 127 ore pare un capolavoro di eleganza e sottigliezza.