THE HATEFUL EIGHT, EMBLEMA DI UNA RICERCA DI PERFEZIONE
L’ottava tappa verso la perfezione della struttura “alla Tarantino” si traduce in una pellicola naturalmente particolare, che tenta e riesce a riunire gli stili e i contenuti dei suoi lavori precedenti, elevandoli.
The Hateful Eight racchiude infatti quasi tutto il background cinematografico del regista, tra citazioni e riproposizioni in salsa nuova che si intravedono nella prima scena, in cui il cacciatore di taglie Marquis Warren, interpretato da Samuel L. Jackson, si avvicina a una carrozza (palese citazione all’incipit di Django Unchained) per cercare riparo dalla neve, e si riverberano nell’intera opera.
DalLe Iene a Pulp Fiction, da Kill Bill a Bāstardi Senza Gloria, l’intero bagaglio artistico (a eccezione del solo Jackie Brown, lavoro più insipido e meno popolare dell’autore) collabora per creare un mix che risulta, in costruzione, stile e gestione delle risorse in campo, il lavoro migliore e più completo dello stesso Tarantino, la sua massima espressione (finora).
Se, tuttavia, la causa è da riscontrare nell’autocitazionismo e nell’apparente volontà del regista di raggiungere la perfezione del suo stile, la vetta delle idee artistiche, attraverso l’unione, la prova del valore intrinseco di The Hateful Eight è lasciata alla singolarità degli elementi in gioco, che risultano gradevoli, coerenti e senza grandi sbavature.
L’intreccio presenta diversi spunti di interesse, con un background curato nei particolari che affonda le radici nella guerra di secessione americana (gli eventi si svolgono pochi anni dopo la stessa), citata e discussa con degli splendidi dialoghi, che contribuiscono alla grande forza emotiva dei momenti migliori del film.
I personaggi risultano, anche e soprattutto grazie alle suddette interazioni, realistici, coerenti e ben sviluppati, su tutti Marquis Warren e Sanford Smithers, anziano ex generale interpretato da Bruce Dern, protagonisti della scena più d’impatto dell’intera pellicola.
Ma soprattutto il tema centrale, quello del razzismo, è ancora una volta affrontato in modo ineccepibile, lasciando il giusto spazio all’interpretazione dello spettatore.
Come sappiamo, però, non esiste l’opera perfetta, e i grandi pregi non riescono a nascondere i difetti congeniti del buon Quentin, che pur limati nel tempo continuano a incidere: se infatti il tema fondante è coinvolgente tutti gli altri risultano solo parzialmente all’altezza di un film di questa portata, se i personaggi meglio costruiti sono incriticabili altri non trovano abbastanza spazio, se alcune scene sono intrise di pathos molte non sono in grado di suscitarne, se l’intreccio non ha sostanziali sbavature non riesce altresì a eccellere.
Insomma, The Hateful Eight non è esente da difetti, non è la vetta artistica raggiungibile da Tarantino, non è (ancora) il capolavoro di un regista che scena dopo scena, film dopo film riesce a superarsi e migliorare sempre più, ma risulta un’opera godibile, tecnicamente impeccabile e con un tema di fondo ben curato, che la accompagna e consente ai personaggi di rapportarsi tra loro verso una risoluzione finale “tarantinamente” elegantissima.