C'era una volta Napster
USA - Correva l’anno 1999 quando due giovani informatici americani, Shawn Fanning e Sean Parker, ultimavano Napster, progenitore dei programmi di scambio peer to peer (alla lettera: “fra pari”, ossia fra computer fisicamente non connessi, ma collegati alla rete da un sistema comune di server centrali), uno dei primi client basato sulla condivisione di file Mp3, apripista di programmi come Kazaa, Morpheus, LimeWire, WinMX, Emule, e protocolli come BitTorrent; un software dall’inatteso potenziale rivoluzionario, Napster, destinato a ridisegnare l’intero mondo del web, a cavallo fra il vecchio ed il nuovo millennio, scuotendo insidiosamente gli equilibri commerciali dell’industria discografica.
Sopravvissuto per più di dieci anni, dopo una prima cessazione e un gambizzato tentativo di rilancio, agli stravolgimenti incorsi nel modo di fruire, scaricare e condividere musica in rete, duramente stretto fra cavillose battaglie legali agitate da major colleriche (ebbe una grande eco, nel 2000, il caso del gruppo dei Metallica, che sporse denuncia per violazione del copyright dopo la pubblicazione napsteriana di un demo inedito del gruppo, reso scaricabile anzitempo), il pionieristico e pluriquerelato software di proprietà di Best buy ha oggi chiuso definitivamente i battenti, siglando un accordo di vendita della proprietà intellettuale per la fusione già avviata con Rhapsody, servizio di musica on demand fornito da Real networks e già ampiamente utilizzato negli States.
Sono dunque pronti gli scatoloni sulle scrivanie dei centoventi impiegati dell’ex gloriosa piattaforma di file sharing, i cui uffici di Los Angeles e San Diego caleranno improrogabilmente le saracinesche il prossimo 16 dicembre, a fronte della vertiginosa diminuzione del numero di abbonati, passati, negli ultimi anni, dai 700.000 ufficiali del 2008 ai 400.000 stimati attualmente, complici il debutto di iTunes Music Store per conto di Apple, dal 2003, e di servizi come lo svedese Spotify, fresco di partnership con Facebook, o Pandora, radio in streaming quotatasi in borsa, più efficaci e fruttuosi del loro avo nel compattare i cavilli del mercato discografico con le esigenze dell’utenza internauta sulla musica on demand (la formula di Spotify, ad esempio, dà la possibilità di un abbonamento mensile, a partire da una cifra basica di dieci euro, per l’ascolto di un numero illimitato di brani, la suddivisione degli stessi in una libreria virtuale, indicizzati per album o artisti, e la creazione di playlist personali).
Con uno catalogo di oltre 13 milioni di brani e l’iscrizione già effettuata da più di 800.000 utenti (paganti), Rhapsody ha così predisposto il terreno – beffardamente: la lettiera – per accogliere in casa propria il girovago felino geek, con le sue cuffie da dj e gli occhi a led del noto logo originario, preventivando, grazie al suo ingresso – quello del software che, per primo, ha “regalato” a generazioni di annosi compratori di dischi il brivido del tutto e subito, e soprattutto del gratuito, col plus valore del recupero di cimeli musicali pressoché introvabili – il traguardo del milione di iscritti, anche attraverso un pacchetto di sconti per agevolare il passaggio della clientela residua di Napster sul nuovo sistema acquirente.
E mentre Fanning e Parker rimescolano le forze, con invariata lungimiranza imprenditoriale, predisponendo Airtime, una nuova piattaforma di video sharing, e accettando di partecipare alle riprese di un documentario sulla storia del loro travagliato primogenito, Napster, che un così epocale piglio ha mostrato nel rovesciare i parametri della musica di consumo massivo, la definitiva sparizione del marchio del gatto, inghiottito e digerito dal colosso digitale di Rob Glaser (lo staff è lo stesso cui si deve lo sviluppo di Real Audio), riedificato sul concetto di download no limits dietro il pagamento di un abbonamento mensile (anziché sull’acquisto dei singoli brani), segna la fine di un’era di navigazione e fruizione della musica sul web. Scandendo anche, conseguentemente, la naturale evoluzione di quella forma embrionale del concetto di file sharing, ora più che mai attuale, ancora più che mai discusso.
USA - Correva l’anno 1999 quando due giovani informatici americani, Shawn Fanning e Sean Parker, ultimavano Napster, progenitore dei programmi di scambio peer to peer (alla lettera: “fra pari”, ossia fra computer fisicamente non connessi, ma collegati alla rete da un sistema comune di server centrali), uno dei primi client basato sulla condivisione di file Mp3, apripista di programmi come Kazaa, Morpheus, LimeWire, WinMX, Emule, e protocolli come BitTorrent; un software dall’inatteso potenziale rivoluzionario, Napster, destinato a ridisegnare l’intero mondo del web, a cavallo fra il vecchio ed il nuovo millennio, scuotendo insidiosamente gli equilibri commerciali dell’industria discografica.
Sopravvissuto per più di dieci anni, dopo una prima cessazione e un gambizzato tentativo di rilancio, agli stravolgimenti incorsi nel modo di fruire, scaricare e condividere musica in rete, duramente stretto fra cavillose battaglie legali agitate da major colleriche (ebbe una grande eco, nel 2000, il caso del gruppo dei Metallica, che sporse denuncia per violazione del copyright dopo la pubblicazione napsteriana di un demo inedito del gruppo, reso scaricabile anzitempo), il pionieristico e pluriquerelato software di proprietà di Best buy ha oggi chiuso definitivamente i battenti, siglando un accordo di vendita della proprietà intellettuale per la fusione già avviata con Rhapsody, servizio di musica on demand fornito da Real networks e già ampiamente utilizzato negli States.
Sono dunque pronti gli scatoloni sulle scrivanie dei centoventi impiegati dell’ex gloriosa piattaforma di file sharing, i cui uffici di Los Angeles e San Diego caleranno improrogabilmente le saracinesche il prossimo 16 dicembre, a fronte della vertiginosa diminuzione del numero di abbonati, passati, negli ultimi anni, dai 700.000 ufficiali del 2008 ai 400.000 stimati attualmente, complici il debutto di iTunes Music Store per conto di Apple, dal 2003, e di servizi come lo svedese Spotify, fresco di partnership con Facebook, o Pandora, radio in streaming quotatasi in borsa, più efficaci e fruttuosi del loro avo nel compattare i cavilli del mercato discografico con le esigenze dell’utenza internauta sulla musica on demand (la formula di Spotify, ad esempio, dà la possibilità di un abbonamento mensile, a partire da una cifra basica di dieci euro, per l’ascolto di un numero illimitato di brani, la suddivisione degli stessi in una libreria virtuale, indicizzati per album o artisti, e la creazione di playlist personali).
Con uno catalogo di oltre 13 milioni di brani e l’iscrizione già effettuata da più di 800.000 utenti (paganti), Rhapsody ha così predisposto il terreno – beffardamente: la lettiera – per accogliere in casa propria il girovago felino geek, con le sue cuffie da dj e gli occhi a led del noto logo originario, preventivando, grazie al suo ingresso – quello del software che, per primo, ha “regalato” a generazioni di annosi compratori di dischi il brivido del tutto e subito, e soprattutto del gratuito, col plus valore del recupero di cimeli musicali pressoché introvabili – il traguardo del milione di iscritti, anche attraverso un pacchetto di sconti per agevolare il passaggio della clientela residua di Napster sul nuovo sistema acquirente.
E mentre Fanning e Parker rimescolano le forze, con invariata lungimiranza imprenditoriale, predisponendo Airtime, una nuova piattaforma di video sharing, e accettando di partecipare alle riprese di un documentario sulla storia del loro travagliato primogenito, Napster, che un così epocale piglio ha mostrato nel rovesciare i parametri della musica di consumo massivo, la definitiva sparizione del marchio del gatto, inghiottito e digerito dal colosso digitale di Rob Glaser (lo staff è lo stesso cui si deve lo sviluppo di Real Audio), riedificato sul concetto di download no limits dietro il pagamento di un abbonamento mensile (anziché sull’acquisto dei singoli brani), segna la fine di un’era di navigazione e fruizione della musica sul web. Scandendo anche, conseguentemente, la naturale evoluzione di quella forma embrionale del concetto di file sharing, ora più che mai attuale, ancora più che mai discusso.