Il «superacceleratore» del Cern di Ginevra
Anche gli ultimi dubbi sembrano caduti e il bosone di Higgs si ritiene ormai catturato, anche grazie a una nutrita squadra di scienziati italiani. Al Cern di Ginevra mercoledì i responsabili degli esperimenti Fabiola Gianotti di Atlas e Joe Incandela di CMS lo annunceranno ufficialmente, ma nei corridoi del centro di ricerche più importante al mondo per la fisica subnucleare è difficile trovare chi smentisce. Semmai ci sono dei distinguo, ma «la particella c'è».
Diventata più popolare come «particella di Dio» (dizione che gli scienziati non amano), per la sua caccia venne costruito il Large Hadron Collider, cioè il superacceleratore capace di far scontrare fra loro nuvole di miliardi di protoni con un'energia di 14 TeV. Mai si era arrivati a tanto, ma questo era l'obiettivo necessario per riuscire a riprodurre, nella lunga caverna sotterranea del laboratorio ginevrino sotto i monti Jura, le condizioni dell'universo una frazione di secondo dopo la sua nascita.
Una sfida notevole che impaurì, e qualcuno gridò al pericolo di creare un buco nero capace di distruggere la Terra quando la macchina veniva accesa nel settembre 2008. L'unico guaio lo subì lo stesso acceleratore nove giorni dopo per il difetto a una saldatura che fece letteralmente scoppiare un elemento superconduttore della macchina rimanendo bloccata un anno per essere riparata.
La riaccensione a passi graduali permetteva finalmente l'avvio delle ricerche a lungo sognate; da quando Peter Higgs immaginò l'esistenza del fatidico bosone per far quadrare i conti della teoria, il cosiddetto «Modello Standard», che spiegava l'architettura di base della natura.
Era il 1964 e la leggenda vuole che l'idea sia zampillata dalla mente dello scienziato mentre passeggiava tra le montagne scozzesi del Cairngorms. Era sempre stato un tipo riservato, ma già da studente al Kings College di Londra rivelava le sue capacità in fisica teorica.
«Mi impressionò un suo compito sulla meccanica quantistica svolto con una velocità incredibile» ricordava il suo compagno di banco Michael Fisher ora professore all'Università del Maryland (Usa). Tuttavia quando propose la sua teoria del bosone non era facilmente creduto. Dopo un primo lavoro introduttivo, il secondo gli veniva rifiutato dal giornale Physics Letters e solo qualche tempo accettato dalla Physical Review Letters.
Restava comunque lo spicchio conclusivo di una teoria e bisognava in qualche modo provarlo. Negli anni Ottanta si impegnavano sia gli scienziati americani che quelli europei immaginando ognuno una supermacchina. Gli Stati Uniti il «Super Superconducting Collider» (SSC) per il quale costruivano una grande galleria in Texas. Ma il costo salì troppo e quando arrivò Bill Clinton alla Casa Bianca cancellò il progetto. A Ginevra, invece, si proseguì mobilitando l'Europa e investendo 6 miliardi di euro. E adesso si è giunti alla meta provocando, in questo campo, un'inversione nella fuga dei cervelli perché dei seimila che lavorano con il superacceleratore mille sono americani.
L'Italia condivise subito l'impresa e ora seicento fisici dell'Istituto nazionale di fisica nucleare sono tra i protagonisti delle ricerche. Non solo. Tre dei quattro responsabili degli esperimenti sono fisici italiani; anzi, sino a qualche mese fa erano tutti e quattro. L'esperto che aveva guidato la costruzione dei magneti superconduttori di cui è formato l'anello di 27 chilometri era Lucio Rossi dell'Università di Milano. E sopra tutti c'è il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci; a dimostrazione del ruolo che la nostra scienza fisica mantiene a livello internazionale.
Prima di utilizzare l'Lhc al Cern si fecero delle indagini sul bosone anche con l'acceleratore LEP attraverso il quale Carlo Rubbia compì le sue scoperte che lo portarono al Nobel. Ma per arrivare all'obiettivo era lo stesso Rubbia a ipotizzare l'Lhc. Negli Stati Uniti si impegnavano con l'acceleratore Tevatron al Fermilab di Batavia (Chicago) entrato in funzione negli anni Ottanta, però la sua potenza era notevolmente inferiore alle necessità. Lo miglioravano per renderlo più competitivo e proprio ieri mattina diffondevano un comunicato per sottolineare che le loro indagini avevano portato «vicino alla scoperta». La gara rimase accesa negli ultimi anni finché nell'autunno scorso Tevatron veniva spento per limiti d'età e nella consapevolezza dell'impossibilità ad andare oltre.
Nel dicembre scorso Fabiola Gianotti di Atlas e Guido Tonelli, allora responsabile del CMS, annunciavano i primi risultati. Erano indizi, la prima impronta dell'esistenza del bosone. Ma i margini di errore erano ancora notevoli, occorrevano altri scontri fra le nuvole di protoni per costruire una maggiore certezza. Ora il momento fatidico sembra arrivato.
«I dati confermano la soglia dei 5 sigma, vale a dire una probabilità di scoperta pari al 99,99994 per cento» spiega Gian Francesco Giudice, teorico del Cern e autore di «Odissea nello zeptospazio, un viaggio nella fisica dell'Lhc» ( Springer ). «Anzi - continua Giudice - si sono intravisti effetti che farebbero pensare all'esistenza di altre particelle, dunque un ampliamento del disegno teorico fin qui immaginato. Per questo bisognerà indagare ulteriormente». Ciò si è ottenuto con il superacceleratore che funziona con un'energia di 7,2 TeV, quindi la metà delle sue possibilità. Quando sarà a pieno regime altri panorami della scienza si apriranno e non a torto molti sostengono di essere soltanto sulla soglia di una nuova Fisica. Come la storia della scienza insegna, per arrivare ai risultati occorrono idee, ma anche strumenti adeguati.
Domani ascolteremo l'identikit della scoperta dalle parole dei protagonisti, Fabiola Gianotti e Joe Incandela, che confronteranno i rispettivi dati ottenuti con i loro esperimenti. E questi forse non rallegreranno il grande cosmologo Stephen Hawking che aveva scommesso cento dollari sostenendo che la «particella di Dio» non esisteva. «C'è qualcosa di sbagliato» aveva detto dei calcoli di Higgs. Ma il tranquillo ottuagenario, schivo e sorpreso delle attenzioni dei colleghi, non replicò mai aspettando con pazienza le prove di Ginevra. Ora sono arrivate.
Anche gli ultimi dubbi sembrano caduti e il bosone di Higgs si ritiene ormai catturato, anche grazie a una nutrita squadra di scienziati italiani. Al Cern di Ginevra mercoledì i responsabili degli esperimenti Fabiola Gianotti di Atlas e Joe Incandela di CMS lo annunceranno ufficialmente, ma nei corridoi del centro di ricerche più importante al mondo per la fisica subnucleare è difficile trovare chi smentisce. Semmai ci sono dei distinguo, ma «la particella c'è».
Diventata più popolare come «particella di Dio» (dizione che gli scienziati non amano), per la sua caccia venne costruito il Large Hadron Collider, cioè il superacceleratore capace di far scontrare fra loro nuvole di miliardi di protoni con un'energia di 14 TeV. Mai si era arrivati a tanto, ma questo era l'obiettivo necessario per riuscire a riprodurre, nella lunga caverna sotterranea del laboratorio ginevrino sotto i monti Jura, le condizioni dell'universo una frazione di secondo dopo la sua nascita.
Una sfida notevole che impaurì, e qualcuno gridò al pericolo di creare un buco nero capace di distruggere la Terra quando la macchina veniva accesa nel settembre 2008. L'unico guaio lo subì lo stesso acceleratore nove giorni dopo per il difetto a una saldatura che fece letteralmente scoppiare un elemento superconduttore della macchina rimanendo bloccata un anno per essere riparata.
La riaccensione a passi graduali permetteva finalmente l'avvio delle ricerche a lungo sognate; da quando Peter Higgs immaginò l'esistenza del fatidico bosone per far quadrare i conti della teoria, il cosiddetto «Modello Standard», che spiegava l'architettura di base della natura.
Era il 1964 e la leggenda vuole che l'idea sia zampillata dalla mente dello scienziato mentre passeggiava tra le montagne scozzesi del Cairngorms. Era sempre stato un tipo riservato, ma già da studente al Kings College di Londra rivelava le sue capacità in fisica teorica.
«Mi impressionò un suo compito sulla meccanica quantistica svolto con una velocità incredibile» ricordava il suo compagno di banco Michael Fisher ora professore all'Università del Maryland (Usa). Tuttavia quando propose la sua teoria del bosone non era facilmente creduto. Dopo un primo lavoro introduttivo, il secondo gli veniva rifiutato dal giornale Physics Letters e solo qualche tempo accettato dalla Physical Review Letters.
Restava comunque lo spicchio conclusivo di una teoria e bisognava in qualche modo provarlo. Negli anni Ottanta si impegnavano sia gli scienziati americani che quelli europei immaginando ognuno una supermacchina. Gli Stati Uniti il «Super Superconducting Collider» (SSC) per il quale costruivano una grande galleria in Texas. Ma il costo salì troppo e quando arrivò Bill Clinton alla Casa Bianca cancellò il progetto. A Ginevra, invece, si proseguì mobilitando l'Europa e investendo 6 miliardi di euro. E adesso si è giunti alla meta provocando, in questo campo, un'inversione nella fuga dei cervelli perché dei seimila che lavorano con il superacceleratore mille sono americani.
L'Italia condivise subito l'impresa e ora seicento fisici dell'Istituto nazionale di fisica nucleare sono tra i protagonisti delle ricerche. Non solo. Tre dei quattro responsabili degli esperimenti sono fisici italiani; anzi, sino a qualche mese fa erano tutti e quattro. L'esperto che aveva guidato la costruzione dei magneti superconduttori di cui è formato l'anello di 27 chilometri era Lucio Rossi dell'Università di Milano. E sopra tutti c'è il direttore scientifico del Cern, Sergio Bertolucci; a dimostrazione del ruolo che la nostra scienza fisica mantiene a livello internazionale.
Prima di utilizzare l'Lhc al Cern si fecero delle indagini sul bosone anche con l'acceleratore LEP attraverso il quale Carlo Rubbia compì le sue scoperte che lo portarono al Nobel. Ma per arrivare all'obiettivo era lo stesso Rubbia a ipotizzare l'Lhc. Negli Stati Uniti si impegnavano con l'acceleratore Tevatron al Fermilab di Batavia (Chicago) entrato in funzione negli anni Ottanta, però la sua potenza era notevolmente inferiore alle necessità. Lo miglioravano per renderlo più competitivo e proprio ieri mattina diffondevano un comunicato per sottolineare che le loro indagini avevano portato «vicino alla scoperta». La gara rimase accesa negli ultimi anni finché nell'autunno scorso Tevatron veniva spento per limiti d'età e nella consapevolezza dell'impossibilità ad andare oltre.
Nel dicembre scorso Fabiola Gianotti di Atlas e Guido Tonelli, allora responsabile del CMS, annunciavano i primi risultati. Erano indizi, la prima impronta dell'esistenza del bosone. Ma i margini di errore erano ancora notevoli, occorrevano altri scontri fra le nuvole di protoni per costruire una maggiore certezza. Ora il momento fatidico sembra arrivato.
«I dati confermano la soglia dei 5 sigma, vale a dire una probabilità di scoperta pari al 99,99994 per cento» spiega Gian Francesco Giudice, teorico del Cern e autore di «Odissea nello zeptospazio, un viaggio nella fisica dell'Lhc» ( Springer ). «Anzi - continua Giudice - si sono intravisti effetti che farebbero pensare all'esistenza di altre particelle, dunque un ampliamento del disegno teorico fin qui immaginato. Per questo bisognerà indagare ulteriormente». Ciò si è ottenuto con il superacceleratore che funziona con un'energia di 7,2 TeV, quindi la metà delle sue possibilità. Quando sarà a pieno regime altri panorami della scienza si apriranno e non a torto molti sostengono di essere soltanto sulla soglia di una nuova Fisica. Come la storia della scienza insegna, per arrivare ai risultati occorrono idee, ma anche strumenti adeguati.
Domani ascolteremo l'identikit della scoperta dalle parole dei protagonisti, Fabiola Gianotti e Joe Incandela, che confronteranno i rispettivi dati ottenuti con i loro esperimenti. E questi forse non rallegreranno il grande cosmologo Stephen Hawking che aveva scommesso cento dollari sostenendo che la «particella di Dio» non esisteva. «C'è qualcosa di sbagliato» aveva detto dei calcoli di Higgs. Ma il tranquillo ottuagenario, schivo e sorpreso delle attenzioni dei colleghi, non replicò mai aspettando con pazienza le prove di Ginevra. Ora sono arrivate.