La Cina nasconde un tesoro anche in cantina. Raggiunto il primato mondiale delle auto di lusso, la seconda economia del pianeta si appresta a diventare la nuova potenza anche nel vino. Una buona bottiglia sulla tavola non è ancora un'abitudine quotidiana, come in Europa, e i cinesi continuano ad accompagnare i pasti con il tè.
Il vino ritorna però simbolo di ricchezza, come sotto la dinastia Tang, supera la birra negli acquisti del ceto medio ed entro un decennio la Cina sarà il secondo mercato enologico globale e tra i primi cinque esportatori della terra. Il boom del vino cinese cambia la mappa della viticoltura ed è destinato a mutare il paesaggio, oltre che in Asia, anche in Occidente.
Per produttori e contadini è un fenomeno senza precedenti: entro il 2025 la Cina sarà il primo consumatore di vino mondiale, ma soprattutto il primo esportatore.
Il dato è emerso a Hong Kong nel corso del vertice dei colossi del commercio internazionale: nessuno negli ultimi dieci anni ha piantato una superficie a vigneto paragonabile con quella cinese, nessuno ha visto aumentare del 100% il consumo e aumentare le grandi cantine da 400, alla fine degli anni Novanta, alle attuali 1500.
I vigneti, un tempo circoscritti alle regioni di Shandong, Gansu e Xinjiang, coprono ormai gran parte del territorio, trasformando il Paese nella Francia e nell'Italia di questo secolo e sottraendo alle potenze storiche del bicchiere uno dei simboli della loro eccellenza.
Langhe, Chianti, Borgogna e Champagne, cedono il posto a Hebei, Henan, Anhui, Jiangsu, Shanxi, Sichuan e perfino Yunnan, regione tibetana ai piedi dell'Himalaya.
Nei ristoranti asiatici l'ultimo status-symbol è ordinare un'etichetta scritta in mandarino, ideata da designer cinesi e uscita dall'imitazione perfetta di un castello di Bordeaux. Un pinot "made in China" comincia però a piacere anche ai sommelier, il tempo affina botti e invecchiamenti e il Dragone, staccando assegni da capogiro, strappa alle cantine di Europa, California e Sudafrica i maghi di uve e barrique.
Dietro gli investimenti colossali, inaugurati una quindicina d'anni fa dalle grandi famiglie dell'enologia francese, i nuovi miliardari di Pechino e Shanghai, sostenuti dai fondi di Stato e dalla diversificazione di capitalisti e finanziarie in fuga dal Giappone. A scuotere il mercato non è però solo lo spostamento storico verso Oriente di vigneti pregiati, cantine top e aste record di annate ed etichette.
Un sondaggio delle più importanti riviste del settore rivela che i cinesi stanno mutando il proprio gusto: chi prima beveva per affermare il superamento del maoismo, brinda oggi perché ama realmente il vino, è convinto delle sue doti medicinali ed è deciso a imporre al resto del mondo il sapore di bottiglie diverse da quelle tradizionali.
Numeri da brivido, per la cantine del Vecchio Continente: entro il 2020 la Cina consumerà oltre 3 miliardi di vino all'anno, produrrà un milione e mezzo di tonnellate di uva e la produzione vinicola crescerà di circa il 45% all'anno. Per Europa, Usa, Sudamerica e Nuova Zelanda le metropoli cinesi sono l'affare del momento: qui ancora si spende e si riassume nel vino l'affrancamento dalla povertà.
Come in tutto però i nuovi "padroni del mondo" imparano l'arte e puntano ad assorbire il business, appellandosi ad una storia vinicola che risale al duemila avanti Cristo. «Il gigante asiatico – ha detto il direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli – entro dieci anni produrrà vino di qualità, facendo concorrenza ai leader dell'export europeo. Già oggi mette sul mercato 30 milioni di ettolitri all'anno, poco meno della metà dell'Italia».
Pechino punta sull'exploit del prezzo dei terreni, sugli investimenti in macchine e tecnologia, sulla conoscenza agricola e sulla fuga dei produttori europei e americani da prezzi che non reggono la crisi.
«Tutta l'Asia sta coprendosi di vigne – dice Yang Hhafeng, una delle nuove star del vino cinese – e le cantine che imbottigliavano bevande a basso costo, iniziano a custodire patrimoni di qualità assoluta. Resta il problema di grappoli importati dall'estero senza obbligo di tracciabilità, la difficoltà di certificare le annate. Ma è chiaro che il monopolio italo- francese, anche nel settore lusso, ha gli anni contati».
Centri commerciali e ristoranti della Cina scoppiano di etichette nazionali con nomi occidentali. Il partito ha ordinato però di valorizzare marchi patriottici, da "Grande Muraglia" a "Rivoluzione Rossa": e anche ad Asti e Montalcino, un quartino alla salute presto arriverà dalle cantine degli eredi di Mao Zedong.
Il vino ritorna però simbolo di ricchezza, come sotto la dinastia Tang, supera la birra negli acquisti del ceto medio ed entro un decennio la Cina sarà il secondo mercato enologico globale e tra i primi cinque esportatori della terra. Il boom del vino cinese cambia la mappa della viticoltura ed è destinato a mutare il paesaggio, oltre che in Asia, anche in Occidente.
Per produttori e contadini è un fenomeno senza precedenti: entro il 2025 la Cina sarà il primo consumatore di vino mondiale, ma soprattutto il primo esportatore.
I vigneti, un tempo circoscritti alle regioni di Shandong, Gansu e Xinjiang, coprono ormai gran parte del territorio, trasformando il Paese nella Francia e nell'Italia di questo secolo e sottraendo alle potenze storiche del bicchiere uno dei simboli della loro eccellenza.
Langhe, Chianti, Borgogna e Champagne, cedono il posto a Hebei, Henan, Anhui, Jiangsu, Shanxi, Sichuan e perfino Yunnan, regione tibetana ai piedi dell'Himalaya.
Nei ristoranti asiatici l'ultimo status-symbol è ordinare un'etichetta scritta in mandarino, ideata da designer cinesi e uscita dall'imitazione perfetta di un castello di Bordeaux. Un pinot "made in China" comincia però a piacere anche ai sommelier, il tempo affina botti e invecchiamenti e il Dragone, staccando assegni da capogiro, strappa alle cantine di Europa, California e Sudafrica i maghi di uve e barrique.
Dietro gli investimenti colossali, inaugurati una quindicina d'anni fa dalle grandi famiglie dell'enologia francese, i nuovi miliardari di Pechino e Shanghai, sostenuti dai fondi di Stato e dalla diversificazione di capitalisti e finanziarie in fuga dal Giappone. A scuotere il mercato non è però solo lo spostamento storico verso Oriente di vigneti pregiati, cantine top e aste record di annate ed etichette.
Un sondaggio delle più importanti riviste del settore rivela che i cinesi stanno mutando il proprio gusto: chi prima beveva per affermare il superamento del maoismo, brinda oggi perché ama realmente il vino, è convinto delle sue doti medicinali ed è deciso a imporre al resto del mondo il sapore di bottiglie diverse da quelle tradizionali.
Numeri da brivido, per la cantine del Vecchio Continente: entro il 2020 la Cina consumerà oltre 3 miliardi di vino all'anno, produrrà un milione e mezzo di tonnellate di uva e la produzione vinicola crescerà di circa il 45% all'anno. Per Europa, Usa, Sudamerica e Nuova Zelanda le metropoli cinesi sono l'affare del momento: qui ancora si spende e si riassume nel vino l'affrancamento dalla povertà.
Come in tutto però i nuovi "padroni del mondo" imparano l'arte e puntano ad assorbire il business, appellandosi ad una storia vinicola che risale al duemila avanti Cristo. «Il gigante asiatico – ha detto il direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli – entro dieci anni produrrà vino di qualità, facendo concorrenza ai leader dell'export europeo. Già oggi mette sul mercato 30 milioni di ettolitri all'anno, poco meno della metà dell'Italia».
Pechino punta sull'exploit del prezzo dei terreni, sugli investimenti in macchine e tecnologia, sulla conoscenza agricola e sulla fuga dei produttori europei e americani da prezzi che non reggono la crisi.
«Tutta l'Asia sta coprendosi di vigne – dice Yang Hhafeng, una delle nuove star del vino cinese – e le cantine che imbottigliavano bevande a basso costo, iniziano a custodire patrimoni di qualità assoluta. Resta il problema di grappoli importati dall'estero senza obbligo di tracciabilità, la difficoltà di certificare le annate. Ma è chiaro che il monopolio italo- francese, anche nel settore lusso, ha gli anni contati».
Centri commerciali e ristoranti della Cina scoppiano di etichette nazionali con nomi occidentali. Il partito ha ordinato però di valorizzare marchi patriottici, da "Grande Muraglia" a "Rivoluzione Rossa": e anche ad Asti e Montalcino, un quartino alla salute presto arriverà dalle cantine degli eredi di Mao Zedong.